una popolarità più ampia e duratura di
Lucia di Lammermoor. Il linguaggio
drammatico immediato, evidente e subito
comprensibile, spiega certo il successo
che accompagna l’opera dalle origini e
che ancor oggi non accenna a venir meno; ma altrettanto decisivo è il fascino
esercitato dal pronunciato colore romantico dell’opera, con la sua materia incandescente, l’atmosfera fosca, il senso pessimistico di un destino ineluttabile che grava sui personaggi.
Scott The Bride of Lammermoor (1819),
ambientato nella Scozia del 1689 al tempo delle lotte tra i seguaci di Gugliel-
mo III d’Orange e Giacomo II. Il romanzo – nel quale all’epoca confluivano l’interesse per la storia inglese, la moda del
racconto gotico e la nuova sensibilità romantica – aveva gia fornito il soggetto,
prima che a Donizetti, ad almeno altri
quattro compositori che l’avevano utilizzato per le loro opere teatrali. La tendenza era diffusa tra gli operisti italiani, che
vedevano in Scott (l’“Ariosto scozzese”)
una fonte privilegiata per gli intrecci melodrammatici, e che potevano contare
sull’ampia diffusione dei suoi romanzi
presso il pubblico borghese.
linee essenziali, eliminando azioni e personaggi secondari ma conservandone il nucleo drammatico, che consiste da un
lato nell’opposizione di Enrico all’amore
clandestino di Edgardo e Lucia, dall’altro nel conflitto tra i due personaggi maschili, dovuto all’antico odio tra le famiglie degli Ashton e dei Ravenswood. Se
nel libretto si mantengono, pur nella loro stilizzazione, i motivi principali del romanzo, ve ne figurano tuttavia di nuovi,
che nell’economia del melodramma sono tutt’altro che secondari: la scena della
follia di Lucia in primo luogo, vero climax drammatico dell’opera, e poi la
morte per suicidio di Edgardo. Alla follia della protagonista il romanzo di Scott
accenna appena; nell’opera di Donizetti
invece la stessa è pubblica e altamente
teatralizzata, così da accrescere l’orrore
e la pietà presso lo spettatore. La scena
di follia – che vanta, com’è noto, una
lunga tradizione nell’opera italiana, e
che conosce con il melodramma romantico una fortuna rinnovata – è resa, in
Lucia di Lammermoor, grazie allo sconvolgimento della sintassi del discorso
musicale, a una linearità melodica frammentata, al libero affiorare di reminiscenze interrotte (non è invece di Donizetti la lunga cadenza di tradizione con il
flauto: fu introdotta, alla fine dell’Ottocento, dal soprano Nelly Melba). Altro
luogo anomalo, e memorabile, è la conclusione dell’opera: qui librettista e compositore si distaccarono dalla tradizione,
che preferiva chiudere con un’aria importante della primadonna (il cosiddetto
rondò), e misero in ultima posizione l’aria del tenore.
Per il resto, l’opera segue le convenzioni
dell’epoca: il romanticismo di Lucia di
Lammermoor è incanalato nell’alveo di
forme classiche, regolari e ben riconoscibili, simmetricamente distribuite nei tre
atti. Anche la scrittura vocale – che tocca
vertici di alto virtuosismo nella parte della protagonista – è legata alla tradizione
del belcanto: insiste dunque su un canto
stilizzato, talvolta riccamente fiorito, anzi-
ché su stilemi realistici. Un generale colo-
re romantico è assicurato dal trattamento
orchestrale: i corni in evidenza nel preludio, i gesti strumentali che penetrano a
fondo nell’animo dei personaggi (di Lucia soprattutto), rivelano una spiccata capacità introspettiva, che emerge soprat-
tutto nell’introduzione ai numeri solistici,
quando l’orchestra prefigura affetti e atteggiamenti psicologici; le battute strumentali che preludono a “Regnava nel silenzio”, ad esempio, individuano già in
pochi tratti la visione che ossessiona Lucia, la sua instabilità, la premonizione della catastrofe. Non estraneo alla popolarità dell’opera, che fu immediata e permanente, è senz’altro il livello altissimo
dell’ispirazione melodica. Donizetti esibisce, qui, straordinarie doti di incisività e
pregnanza melodica, che si tratti della
veemenza infuocata degli scontri tra i personaggi maschili o del languore malinconico di Lucia.
1835. La prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo a Napoli, al Teatro di San
Carlo, il 26 settembre dello stesso anno.
Le due prime parti furono affidate al soprano Fanny Tacchinardi Persiani e al tenore Gilbert Duprez; completavano il cast il baritono Domenico Cosselli e il basso
Carlo Porto. Si trattava di ottimi interpreti (la Tacchinardi Persiani, in particolare,
era la cantante più tecnicamente agguerrita della sua epoca), che assicurarono all’opera un notevole successo, che non
venne mai meno per tutto l’Otto e il Novecento; anche oggi che la Donizetti-renaissance ha portato alla rivalutazione di
opere meno fortunate, Lucia è considerata a pieno titolo il capolavoro del Bergamasco. Non stupisce neppure che gli storici abbiano sempre identificato in Lucia di
Lammermoor un’icona del teatro borghese, oltre che di quello romantico. Basta rileggere le pagine di Flaubert in cui Emma
Bovary – il classico prodotto di un’educazione provinciale e di un sentimentalismo
artificialmente acuito e deviante – assiste
in teatro alle vicende di un’eroina tragica,
identificandosi totalmente con i suoi amori e con la sua sorte sfortunata. Non a caso, si tratta di una rappresentazione di
Lucia di Lammermoor.